LE DOCCE PUBBLICHE

Un servizio svolto senza bisogno di energia elettrica e che in paese rivestiva una grande importanza era quello delle docce pubbliche che, un bel giorno, il parroco pensò di ricavare nello scantinato della casa di riposo
Da precisare quali erano gli apparecchi igienici classici di cui erano dotate la quasi totalità delle abitazioni. Essi consistevano nel “sècer” della cucina cioè in una lastra di pietra rettangolare scavata nella sua parte centrale per cinque o sei centimetri e sormontata da un’asse orizzontale in legno munita di appositi ganci per appendere i secchi colmi dell’acqua da usare per tutti gli usi famigliari e sopratutto per la cucina. Le camere da letto erano dotate di un grande recipiente nel quale era conservata l’acqua chiamato “brocca” e di un catino sostenuti da un cavalletto in ferro dove, la mattina, ci si lavava viso e mani.
Per fare il bagno individuale, sia nel capoluogo che nelle frazioni, non restava che il mastello in legno del bucato riempito d’acqua riscaldata sul fuoco.
Una volta aperte le docce pubbliche con la lodevole iniziativa del parroco, prendemmo invece l’abitudine di ritrovarci tutti i sabati nello scantinato della casa di riposo per usufruire, a turno visti i pochi posti disponibili, di tale essenziale servizio. Il riscaldamento dell’acqua era lì curato da Toni Cis, l’ex guardia ed ex uomo tuttofare del comune allora ospite della casa di riposo, che, nel caricare in caldaia la legna che ne costituiva l’insostituibile combustibile e sordo alle nostre continue lamentele, cercava di economizzare al punto che normalmente l’acqua risultava appena intiepidita. Quando, del tutto eccezionalmente, capitava di far la doccia con acqua calda sentivamo il desiderio di raccontarlo subito agli amici: ” ho fatto una doccia meravigliosa, figuratevi che l’acqua era veramente calda!”. Allora non c’erano né sciampo né sapone da bagno, era già una gran cosa poter lavarci con il sapone da bucato visto che per tanto tempo ne eravamo rimasti privi.
Un curioso particolare mi fa ricordare con precisione qual’era l’importo che ognuno di noi doveva pagare a Tony Cis: settanta lire. Me lo richiama alla mente la grafia dell’originale contabilità tenuta dal Cis stesso e che consisteva in grandi fogli di carta gialla, quella usata in negozio per incartare i formaggi, sulla quale, il Tony, privo di occhiali nonostante la sua forte presbiopia, tracciava, con la classica matita rossa da muratore a mina di grafite assai larga e a mò di geroglifici egiziani, le cifre dell’incasso con caratteri per lui visibili e cioè molto spessi ed alti non meno di tre centimetri. Inutile far rilevare i commenti ironici che su tale lista sui generis provenivano immancabilmente ogni sabato da quel consesso di giovani!

 

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