L’ACQUA POTABILE

Anche le modalità di alimentazione d’acqua potabile necessaria per gli usi di casa e per le pulizie personali di un tempo meritano di essere ricordate. Pochissime case d’abitazione erano dotata d’impianto idrico interno. Nel capoluogo l’acqua era approvvigionata mediante i classici secchi in rame, di solito portati a spalle usando un’asta ricurva di legno (il “bigol”), dai pochi fortunati che erano allacciati all’acquedotto comunale, prelevandola dal rubinetto del cortile e da tutti gli altri attingendola dalle cinque fontane pubbliche poste rispettivamente in Piazza Duomo, all’incrocio fra Via Nazionale e Rimembranza, a quello tra Via Roma e Giovanni XXIII ed infine in fondo alle Vie Roma e Garibaldi. Tutte le fontane pubbliche fatta eccezione per le due di Via Rimembranza e Giovanni XXIII, erano munite di vasche, alcune delle quali molto grandi e belle, che erano giornalmente usate dagli agricoltori per abbeverare le mucche della stalla facendo loro attraversare, tutte in fila, il centro del paese.

 

La fontanella in Via Roma all’incrocio con via Piave

 

Un’altra veduta della fontanella in Via Roma all’incrocio con via Piave con una querese con le vesti d’epoca: è Marietta, la nonna di Alessandro, Remo e Gino. La casa sullo sfondo è l’abitazione di Angelin per molti anni il calzolaio ufficiale di Quero

 

IN Via Giovanni XXIII davanti alla Casa di Mazzocco Angelo ciabattino. IL bambino è zio Mario Dal Canton

 

La fontana-abbeveratoio di Piazza Duomo in una vecchia foto. Le donne portano i secchi d’acqua con il “bigol”

 

In quegli anni l’acqua era scarsa ma non le “ombrette” di vino delle numerose osterie. Nella foto l’osteria della frazione di S. Maria

 

Un’altra famosa osteria: la locanda Curto sita di fronte alla stazione ferroviaria di Quero-Vas

 

Altra caratteristica che differenziava S. Maria dal Carpen, era la minor distanza dal fiume Piave nonchè la presenza di uno dei classici pozzi in muratura ad uso però della sola famiglia del casello ferroviario.
Sembrerà impossibile ma allora l’acqua fluente di Piave e Tegorzo era fresca e perfettamente potabile. Lo testimonia il fatto che, durante le nostre nuotate sia nel filone del Piave e sia nei piccoli laghetti che si formavano subito a monte delle rudimentali briglie delle rogge del Tegorzo, usavamo dissetarci bevendo tranquillamente la stessa acqua entro la quale ci stavamo esibendo con vigorose bracciate tese non tanto a farci progredire nello sport del nuoto, che ci era poco congeniale, quanto piuttosto a produrre il calore necessario per farci vincere il freddo intenso trasmesso al nostro corpo dal mezzo gelido su cui eravamo immersi.
A proposito della difficoltà d’approvvigionamento d’acqua segnalo come a S.Maria siano state fatte, con esito nullo, delle ricerche d’acqua sorgiva sulla base delle indicazioni di una rabdomante napoletana. Era l’anno 1951 ed io, appena divenuto geometra, lavoravo presso lo studio di un ingegnere di Belluno che interpellava spesso questo personaggio, una specie di pulcinella incartapecorita che, senza peraltro alcuna conferma reale almeno negli esperimenti ai quali ho assistito anch’io, pretendeva di scoprire l’esatta ubicazione e la profondità sotto il suolo delle vene d’acqua. La procedura era la seguente. La rabdomante percorreva il territorio da esaminare seguita dal sottoscritto munito di picchetti e cordella metrica. La presenza di acqua veniva segnalata dagli intensi sussulti che assalivano la rabdomante. Era quello il segnale per piantare il primo picchetto nel mentre lei proseguiva nel cammino e nei tremolii. Come questi ultimi cessavano io dovevo piantare il secondo picchetto che indicava la fine della zona attiva. Avveniva allora la misura della profondità cui si trovava l’acqua. Determinato con la fettuccia metrica la mezzeria tra i due picchetti la rabdomante vi si poneva con una gamba sollevata. Il via al cronometro era dato nel preciso istante in cui, stabilito il contatto con il suolo appoggiando il secondo piede a terra, la maga cominciava a sussultare violentemente. Dalla durata dei sussulti, accuratamente misurata dal sottoscritto, ed utilizzando una formula segreta, veniva determinata la profondità cui spingersi con lo scavo per trovare l’acqua. Nel caso di S. Maria tale misura venne definita in quattro metri. Il risultato reale fu diverso: venne praticato, completamente a mano, uno scavo di oltre sei metri senza trovare una goccia d’acqua!
Come ho già detto non erano infrequenti gli insuccessi! Una volta, eravamo d’inverno in Alpago, faceva molto freddo e la maga non funzionava a dovere. Sono intervenuto personalmente a rimetterla in sesto con un gran falò in aperta campagna ottenuto bruciando interamente uno di quei covoni che vi si trovavano sparsi ovunque per conservare le canne di granoturco ma il risultato fu sempre disastroso: costruimmo un pozzo in muratura di profondità doppia rispetto a quanto previsto dalla rabdomante senza trovare acqua! .
Torniamo in tema. Molto più grave era la situazione idrica della frazione di Cilladon. Non essendoci nè sorgenti nè corsi d’acqua la sola risorsa di quella frazione era rappresentata dall’acqua piovana raccolta ed immagazzinata con sistemi diversificati a seconda dell’uso. Quella per scopi potabili proveniva dai tetti delle case ed era accumulata in vasche interrate di muratura. Quella necessaria per abbeverare gli animali della stalla si raccoglieva per ruscellamento superficiale in grandi depressioni a forma di calotta sferica (le pose) opportunamente scavate nel terreno e rese impermeabili dalle foglie e dagli altri materiali fangosi che attraverso gli anni si erano depositati nel fondo. Dopo qualche settimana dall’ultima pioggia, esaurita l’acqua potabile delle vasche interrate, bisognava sostituirla con quella delle pose diventata ormai di colore giallastro per la presenza di rospi e di una miriade di piccolissimi insetti che si muovevano con strani movimenti a scatto nella stessa acqua usata per scopi alimentari.

 

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