L’AGRICOLTURA

L’attività principale e quasi esclusiva dei piccoli paesi come Quero era l’agricoltura, un’agricoltura povera per la grande frammentazione della proprietà e per la ubicazione in zone montane prive di strada di accesso carrabile di molti dei terreni che componevano le aziende. Erano poche le famiglie che potevano contare sulle braccia di numerosi componenti il loro nucleo e che possedevano ampie aree coltivate e confortevoli case coloniche con annessa stalla. La maggior parte delle aziende erano di piccola entità, e venivano coltivate da singole persone con risultati davvero modesti. I prodotti, per la maggior parte utilizzati per l’alimentazione della famiglia del proprietario, consistevano nel granoturco da polenta, nel fieno per le bestie, ortaggi vari sopratutto patate e fagioli, animali da cortile sopratutto galline e conigli, nella stalla mucche con produzione di latte, di burro e formaggio e di qualche vitello ed infine il maiale da ingrasso.
La lavorazione dei campi era fatta totalmente a mano con la sola eccezione dell’aratura che avveniva tramite i buoi di qualche agricoltore che, durante la stagione adatta, effettuava tale lavoro per conto dei vari compaesani.

 

Uno degli agricoltori che eseguiva l’aratura dei campi per conto terzi e con i buoi era Giovanni (Nani Bolet) quì ritratto in divisa quando era militare della prima guerra mondiale

 

La famiglia al completo di Angelo

 

Nani Bolet con la moglie
Nani Bolet con la moglie

 

La famiglia di Giuseppe G, al lavoro nei campi

 

Come già detto la maggior parte dei prodotti era consumata direttamente dai famigliari, tutti impiegati nel lavoro dei campi mentre il fieno, stivato nei fienili, costituiva l’alimentazione delle mucche per l’intera annata. Il latte prodotto era in parte a disposizione della famiglia ed in parte portato ogni giorno alla latteria chiamata turnaria perché a turno ogni contadino, quando il quantitativo consegnato raggiungeva un determinato ammontare, poteva disporre dell’intera azienda casearia e di tutto il latte di quella giornata per produrre in proprio burro, formaggio e ricotta. Quest’ultima, per la conservazione, veniva posta entro la cappa del camino dove acquisiva dal fumo un sapore del tutto particolare. La vita del contadino era veramente dura per l’impegno manuale richiesto dalla lavorazione dei campi e della stalla. Sarebbero molti gli aneddoti interessanti che si potrebbero raccontare sui modi di vita e di lavoro ma, per non essere prolisso, parlerò soltanto del fieno che nasceva spontaneamente negli appezzamenti di montagna. Oltre alle difficoltà della sua falciatura ed essicatura al sole dovute alla conformazione accidentata del terreno era veramente problematico il suo trasporto fino alla casa colonica per poi stivarlo nel fienile.  Il mezzo comunemente usato era una slitta delle dimensioni di circa 2.5 x 1.3 metri chiamata “mussa” la cui costruzione, tramandata da padre in figlio, era un piccolo capolavoro in quanto esso doveva essere dotato di grande robustezza per garantire che, sotto il peso di un rilevante carico di fieno, potesse resistere alle scosse di un percorso molto accidentato. Al tempo stesso la slitta doveva essere leggera per consentire ai proprietari di portarla in alta montagna direttamente a spalla. Arrivati sul posto, dopo aver percorso sentieri ripidissimi col pesante fardello, caricata la mussa di una grande e pesante massa di fieno, aveva inizio la parte ancora più difficoltosa e cioè la discesa lungo ripidi e tortuosi sentieri ghiaiosi. La mussa col suo pesante carico di fieno ben legato, veniva guidata a forza di braccia su un potente strato di ghiaia sciolta sulla quale doveva scivolare grazie ai suoi larghi pattini. Il conduttore, impiegandovi tutta la sua forza, doveva regolare la direzione e soprattutto la velocità della mussa fino a valle evitando nella maniera più assoluta di perderne il controllo. Si capisce quanto fosse duro e pericoloso il trasporto del fieno con le modalità indicate; lo testimoniano i numerosi incidenti che vi si sono verificati.

Altri aneddoti interessanti la vita contadina di un tempo sono quelli riguardanti l’uccisione del maiale di casa che , prima dell’arrivo dell’inverno costituiva un avvenimento importante e festoso. A turno si riunivano nel cortile di ogni casa colonica lo specialista che sapeva “far su” il maiale ed alcuni aiutanti per ricavare “sopresse”, “salami”, “figadet” cioè le salsicce, con una spece di rito festoso.Non mancava mai uno scherzo ai danni di un ragazzo accuratamente scelto tra i molti curiosi che di solito presenziavano all’avvenimento. Gli veniva chiesto di andare presso la casa un contadino ben noto a tutti a farsi prestare “lo stampo delle martondele” un attrezzo naturalmente inesistente ma con un nome che la diceva lunga sul gioco in corso. Il destinatario, in base ad una consuetudine consolidata, gli consegnava un sacco contenente una pesante pietra che il malcapitato ragazzo doveva sforzarsi di portare per tutto il lungo ed accidentato tragitto per poi, all’arrivo, vedersi preso in giro da tutti i presenti.
L’operazione di uccisione del maiale chiudeva la stagione lavorativa della popolazione contadina che si preparava a trascorrere l’invernata riunendosi nelle stalle per il filò di cui al capitolo 2.2.12, raccontandosi le vicende dell’annata trascorsa tra le quali figurava immancabilmente la vicenda dello “stampo delle martondele” completa di tutti i particolari sul comportamento dei vari giovani scelti caso per caso.

 

SEGUE AL PROSSIMO ARTICOLO

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *