GASPERIN

L’officina fabbrile di Gasperin costituiva un concentrato di ingegno e di abilità artigianale che, se conservato intatto, potrebbe benissimo figurare nel museo delle arti e mestieri

 

Chechi, padre di Gasperin, fabbro a Quero in Via Roma quì con la moglie Catina per molti anni postina a Quero

 

Bisogna tener presente che allorché Gasperin ricevette l’officina da suo padre Chechi, anch’egli fabbro, tutti i manufatti in ferro erano ricavati completamente a mano da metallo grezzo portato al calor rosso nella forgia, il cui ventilatore era anch’esso manovrato a braccia, e, girato e rigirato sull’incudine, modellato con ripetuti e sonori colpi di martello.

 

 

Forgia ed incudine durante il lavoro del fabbro

Il giovane e bravo artigiano, diventato titolare dell’attività, pensò bene di modernizzare l’officina dotandola di un’attrezzatura che oggi ha dell’incredibile ma che in quegli anni destava invece una grande ammirazione. Il problema di base risultava concentrato nella necessità di azionare ogni macchina utensile già presente in officina oppure da installarsi in tempi successivi anche molto lontani, tramite un unico motore elettrico non essendo nemmeno proponibile di dotare, come sarà normale alcuni anni dopo, ogni attrezzo meccanico di un propulsore proprio. La risoluzione del problema venne trovata tramite un collettore principale, in pratica un lungo asse rotante disposto, per tutta l’estensione dell’officina, nella parte alta del muro di fondo allo scopo di ridurre al minimo gli ingombri, fatto girare vorticosamente dal motore elettrico sito a pavimento e da una coppia di pulegge con una lunga cinghia di trasmissione. Il collettore era in grado, mediante altrettante coppie di pulegge e relativa cinghia di trasmissione, di raggiungere ed azionare alternativamente, l’una o l’altra di qualsivoglia macchina utensile comunque disposta nell’officina. La velocità di rotazione e la potenza impresse alla macchina venivano definite giocando sui diametri delle due pulegge. Così la mola a smeriglio ed il ventilatore della forgia che, richiedevano una velocità elevata ma poca potenza, erano dotati di una grande puleggia al collettore e piccola in arrivo alla macchina, mentre per il maglio, che necessitava invece di molta potenza a scapito della velocità, si notava una disposizione invertita: piccola puleggia al collettore e grande all’arrivo.
Chiaramente anche la sola messa in moto di una macchina, che ai nostri giorni avviene con la semplice pressione di un pulsante, costituiva allora un piccolo problema dato dalla necessità di allineare, a motore fermo, la cinghia in cuoio sulle competenti pulegge tramite l’uso di una scala a pioli e di verificarne, a mano, la funzionalità.
Ad un certo punto in officina fece bella mostra di sè una attrezzatura che consentiva, cosa impensabile a quel tempo, di collegare tra di loro in maniera indissolubile più elementi in ferro: la saldatura autogena con cannello ad acetilene ed ossigeno in bombole. Vista a posteriori tale modalità fa sorridere essendo stata totalmente soppiantata dalla molto più agevole saldatura elettrica. E’ vero che unire dei ferri col cannello significava portarli al calor rosso e quindi provocarvi delle dannose deformazioni cui doveva rimediare l’artigiano con vera maestria, si trattò comunque di un notevole passo avanti considerato che, prima, per saldare tra di loro gli elementi ferrosi di una certa dimensione come erano quelli in argomento, esisteva solo la chiodatura che richiedeva la sovrapposizione dei due lembi da unire, la formazione di una serie di fori ed infine l’inserimento e ribattitura di altrettanti chiodi a doppia testa di diametro opportuno e, naturalmente, fatti a mano!
L’interesse e la curiosità che destava l’officina sui clienti e sopratutto su noi giovani che non trascuravamo di visitarla frequentemente, era dovuto ad un insieme di circostanze del tutto particolari date non solo dalle spettacolari, complesse e del tutto nuove apparecchiature appena descritte ma altresì dai manufatti che uscivano dalle abili mani di Gasperin, primo tra tutti il monumentale maglio che egli si era, nei ritagli di tempo, autocostruito. Si trattava di un’attrezzatura in grado di sostituirsi alla mazza ed incudine e facilitare quindi la modalità operativa maggiormente in uso nell’officina. Ovviamente, non potendo disporre di alcun progetto della macchina né di elementi teorici di dimensionamento, Gasperin, ben conscio del lavoro gravoso che essa avrebbe dovuto svolgere, si comportò nell’unico modo consigliabile cioè nell’abbondare nella consistenza di tutte le strutture. Ne risultò un monumentale meccanismo totalmente in ferro che alla sua ottima funzionalità aggiungeva una spettacolarità molto apprezzata sopratutto da noi giovani che avevamo seguito la sua costruzione in tutte le varie fasi durate un periodo lunghissimo. Nonostante i molti anni trascorsi è ancora viva nella mia mente l’immagine del maglio. Ricordo, ad esempio, la molla che, in tutte le macchine del genere, deve essere interposta tra eccentrico di comando e massa battente e che, per l’occasione, era costituita da una comune balestra a fogli ricuperata da una vecchia vettura, forse una Fiat Topolino, disposta trasversalmente e quindi chiaramente visibile sia a maglio fermo sia quando conferiva alla mazza in rapida corsa la necessaria libertà di precipitare con tutto il suo peso sul ferro da modellare. La vista del ferro rosso incandescente che, mosso velocemente dalle abili mani di Gasperin sotto la rapida successione di colpi inferti dal maglio, prendeva velocemente forma era veramente affascinante. Del resto partecipare a tale spettacolo era molto facile poiché l’officina prospettava direttamente sulla centralissima Via Roma tramite un largo portone sempre aperto e valicabile da chicchessia e grazie alla pazienza e cordialità del titolare che si compiaceva di dare a chiunque tutte le spiegazioni chieste.
Un’altra opera che dominò per lungo tempo nell’officina è stata l’aquila semovente in ferro e rame che avrebbe dovuto ornare uno dei monumenti che un personaggio singolare come il prof. Bressa e di cui parlerò più avanti, intendeva costruire sul Monte Cornella.  Al contrario un lavoro che, per il fumo e l’acre odore di osso bruciato prodotti, doveva essere fatto in strada era la ferratura dei cavalli. Si poteva allora vedere Gasperin uscire dall’officina portando con la tenaglia il ferro di cavallo reso incandescente alla forgia e poi premerlo, ancora rovente, contro lo zoccolo tenuto in alto dal proprietario dell’animale legato agli appositi ganci confitti nel muro esterno dell’officina, fino a bruciacchiarlo per farvelo aderire perfettamente. Il cavallo, ben conscio del grande beneficio che gli sarebbe derivato dalla nuova calzatura, se ne stava buono buono accettando volentieri che i suoi zoccoli fossero incisi a caldo e trafitti dai lunghi chiodi esternamente ripiegati su sè stessi e che erano necessari per fissarla in maniera stabile.Merita anche di essere ricordato un particolare dei manufatti in ferro che uscivano da officine come quella di Gasperin e che riguardava il loro modo di conservazione. Un tempo le inferriate, i parapetti ed anche i piccoli manufatti come i catenacci, i perni dei portoni e più in genere tutti gli oggetti in ferro destinati a restare all’aperto e che quindi erano soggetti alle intemperie, pur non essendo protetti da alcun rivestimento ma lasciati nello stessa identica condizione con cui uscivano dall’officina fabbrile, si mantenevano per lunghissimo tempo senza arrugginire al contrario assumevano, col passare degli anni, un bellissimo ed inalterabile color ferro opaco. Nell’epoca attuale per proteggere gli stessi prodotti ferrosi non basta più nemmeno una doppia mano di colore preceduto da una prima passata di antiruggine. Un trattamento del genere dura al massimo una decina d’anni dopodichè comincia ad affiorare su tutta la superficie la ruggine. Ecco che per evitare l’inconveniente la coloritura deve essere preceduta da zincatura. Il fenomeno mi ha incuriosito per lungo tempo finché un giorno sono venuto a conoscerne la causa ponendo il quesito ad una persona molto anziana che sapevo essere stato un fabbro all’altezza di Gasperin. Mi ha spiegato che la ragione va attribuita alla diversa composizione del ferro che nei tempi andati era molto ricco di carbonio. Tale sua caratteristica facilitava la lavorazione alla forgia e, al tempo stesso, garantiva la sua buona conservazione anche se esposto alle intemperie. Quel metallo non viene più prodotto ed è questa una ragione in più per apprezzare i vecchi manufatti in ferro forgiato a mano di cui esistono ancora molti esempi anche a Quero

 

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Alcuni dei capolavori artigianali che uscivano dalle abili mani di Gasperin: l’aquila che sarà installata tra i monumenti del M. Cornella e una coppia di serpenti in ferro battuto.

 

Particolare della testa di uno dei due serpenti in ferro battuto fatti da Gasperin

 

Gasperin nel 1957 al lavoro per la costruzione della diga di Valsisenche a 1700 metri di quota in Val d’Aosta

 

 

Per quanto riguarda la vicenda Gasperin resta da raccontare la parte meno bella. Col passare degli anni la sua arte artigianale è stata sacrificata sull’altare del progresso tecnologico e specificatamente della materia che più di tutto lo rappresenta cioè della benzina alla cui vendita, in seguito, si dedicò egli stesso.
Nessuno portava più cavalli a ferrare. Occorrendo un piccone, un martello, un catenaccio o uno qualunque dei meravigliosi elementi da usarsi per inferriate, ringhiere, attrezzi di lavoro di qualunque tipo, non lo si faceva più forgiare a mano da Gasperin ma lo si comprava in negozio a modico prezzo perchè costruito in gran serie. Alla fine l’officina fabbrile dovette chiudere i battenti.
Mi capitò spesso, facendo rifornimento per la mia auto nel distributore gestito da Gasperin e vedendo il bravo artigiano impegnato, come sempre con grande serietà, nella nuova banale attività, di riflettere sui molti guasti che il progresso tecnologico, per molti versi fonte di grandi benefici per tutti, per altri lati ha invece provocato. La società moderna si differenzia da quella di 50 anni fà proprio in questo: le nuove generazioni riescono a seguire l’incalzare frenetico delle innovazioni tecnologiche molto meglio di quelle precedenti perchè non possiedono nulla di tradizionale che varrebbe la pena di difendere, di conservare così com’era, ad esempio, la vera e propria arte artigianale di Gasperin. Il loro patrimonio personale è invece estremamente volatile destinato com’è ad essere in breve sostituito da quello nuovo ed incalzante con una progressione di tipo esponenziale e quindi sempre più rapida. Si potrebbe dire che le nuove generazioni, quando imparano una cosa nuova, lo fanno col beneficio dell’inventario in quanto, conoscendo perfettamente la sua provvisorietà, sanno che non val la pena di approfondirla oltre un certo limite.
Il fenomeno é aggravato dall’eccessivo uso dei telefonini personali che stà provocando una ulteriore profonda trasformazione nelle abitudini della moderna gioventù. Oggi non occorre programmare la propria vita, relazionare, scrivere, organizzare riunioni per discutere i vari problemi: tutto può essere sistemato con una telefonata fatta all’ultimo minuto!
Una volta adottate, queste regole diventano una comoda base da applicare comunque e dovunque, anche se a sproposito e finiscono quindi per provocare danni irreparabili.
Ne è un chiaro esempio il matrimonio tra giovani che, essendo considerato fin dal suo inizio anch’esso una avventura momentanea, transitoria, da prendere alla leggera, finisce troppo spesso per naufragare.

 

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